Paolo Doppieri: il regista tra spot, cinema e mentoring

Nell’universo della comunicazione visiva, ci sono menti che non si limitano a dirigere, ma tessono storie, trasformando idee in narrazioni che rimangono impresse. Paolo Doppieri è uno di questi artisti.

Regista e autore, ha firmato spot per brand come Disney, Mattel, Universal Music e Juice, muovendosi con disinvoltura tra pubblicità, cortometraggi, videoclip e documentari. Non solo dietro la macchina da presa: Paolo è anche autore di script e concept, una mente che costruisce ogni progetto dalla sua radice più profonda. In questa intervista ci apre le porte del suo mondo, dove il lato umano e il lavoro di squadra sono essenziali. Scopriremo la sua peculiare “Zona Cesarini” creativa, che lo porta a partorire le migliori idee all’ultimo minuto; il suo sguardo lucido sul presente, tra creator e social che hanno cambiato le regole del gioco — una “schizofrenia stimolante”, come la definisce lui. E infine la riflessione sull’intelligenza artificiale: strumento potente che, se da un lato accelera i processi, rischia al tempo stesso di appiattire l’immaginario collettivo.

Iniziamo la nostra chiacchierata!
> Paolo, partiamo dall’inizio, anzi, dal primo “click”: qual è stato lo spot che ti ha fatto scattare la scintilla e dire “Ecco, io voglio fare il regista”? C’è stato un momento preciso, un’illuminazione improvvisa?

È un bel salto indietro! La voglia di raccontare per immagini mi accompagna fin dalle elementari. All’epoca disegnavo fumetti e giravo improbabili adattamenti dei miei film preferiti — horror e fantascienza in primis — coinvolgendo mio padre come operatore e i compagni di classe come attori. Poi ho preso in mano la videocamera e ho iniziato a fare sul serio, affinando la tecnica e, soprattutto, la capacità di condividere una visione con chi lavora con me. Che poi è la vera skill del regista: molto più preziosa della dimestichezza con la tecnologia, nonostante quello che pensano in tanti. La scintilla non è arrivata da uno spot, ma da un corto: “Fetus”, girato a vent’anni. Vinse al Bellaria Film Festival e fu trasmesso su Rai 3, nel programma TV più rock’n’roll della televisione italiana: Fuori Orario di Enrico Ghezzi, che lo introdusse con una presentazione… galvanizzante.

> Se potessi dare un consiglio al ‘te stesso’ all’inizio della carriera, quale sarebbe? E a un giovane che oggi sogna di entrare nel mondo della regia?

Bella domanda! Me la rivolgono spesso in occasione dei miei workshop. I consigli che darei al me stesso ventenne e agli attuali aspiranti registi coincidono, e sono quattro.

  1. Circondatevi di stimoli creativi fuori dall’ordinario: non limitate i vostri interessi all’audiovisivo o alla tecnologia. La contaminazione è fondamentale.
  2. Scrivete e producete il prima possibile: non abbiate paura di fallire (serve per crescere), né di essere giudicati male (serve altrettanto).
  3. Evitate di fare tutto da soli e imparate da subito a coinvolgere gli altri, stimolandoli e condividendo i vostri progetti. In tot anni che faccio questo lavoro, ho capito che I lupi solitari ce la fanno solo se sono molto fortunati o ben protetti.
  4. Non commettete l’errore fatale di legarvi troppo presto e troppo a lungo a talent scout o produttori iperprotettivi, possessivi o soffocanti: anche quelli con le migliori intenzioni, spesso finiscono per tarparvi le ali finché non si intorpidiscono, e vi spremono senza offrirvi reali occasioni di crescita. E se qualcuno che sta leggendo pensa: “Troppo tardi per sfruttare questi consigli”… ecco il bonus: non è MAI troppo tardi per ricalcolare il percorso.
> Quando ricevi un brief, dopo averlo letto e analizzato, hai un tuo rituale scaramantico o un metodo particolare per far partire l’ingranaggio creativo?

Metodi non ne ho, se escludiamo l’abitudine di studiare a fondo il brand e scambiare quante più parole possibili con l’agenzia. E fin qui, nulla di originale. Ma riflettendoci mi succede spesso che dopo una prima fase di “assorbimento” in cui cerco di raccogliere tutte le info e i materiali utili, io tenda a chiudere il brief nel cassetto e ad evitare di ripensarci finché non avverto la tipica ansietta da consegna imminente. A quel punto, con la deadline dietro l’angolo, anziché darmi da fare, tendo a tirare ancora di più la corda, ad esempio facendo cose improbabili (come accudire la cagnetta, giocare alla Playstation o guardare film koreani) o semplicemente dedicandomi ad altri progetti. Così facendo mi riduco a lavorare in Zona Cesarini, a volte nel weekend, o a notte fonda, quando il tempo a disposizione è scarso e il rischio di bucare la consegna è molto alto. Queste condizioni scellerate mi danno una botta di adrenalina che il più delle volte è foriera di idee creative originali partorite all’ultimo minuto. Non è un modus operandi che mi sento di consigliare, ma con me funziona da vent’anni.

> C’è uno spot che hai diretto di cui, riguardandolo, dici “Cavoli, qui ho davvero colpito nel segno”? Quello di cui vai particolarmente orgoglioso e perché?

Il primo che mi viene in mente è Risvegli con Denise Tantucci, presentato anche al CFF (Civitanova Film Festival) nel 2019. All’apparenza un cortometraggio cinematografico di stampo intimista, in pratica un tourism promo volto a rilanciare la città dove sono nato dopo il COVID. È un piccolo film che riguardo con soddisfazione e un pizzico di orgoglio, consapevole di quanto sia stato difficile trasmettere un’idea di rinascita in un periodo ancora attraversato da grandi timori e incertezze. Il merito della buona riuscita di questo progetto va ascritto – prima che alla mia regia – al concept di Sabrina Viggiano – oggi affermata segretaria di edizione – e ovviamente alla straordinaria presenza scenica di Denise, attrice talentuosa dallo sguardo magnetico e carico di umanità. Altri punti di forza sono indubbiamente la musica di Alessandro Apolloni, la fotografia di Alessandro Zonin, e in generale l’apporto produttivo e artistico di tutti i professionisti coinvolti: una delle prime crew italiane a lavorare dopo l’orribile quarantena. Non so dire se sia il mio lavoro che preferisco, di sicuro è nella mia top ten.

Risvegli  Short Film >

> Oggi la pubblicità è un proiettile: velocissima e d’impatto. Tra spot TV e l’oceano dei Social – con reel, stories e creator – questa corsa alla velocità e alla viralità ha stravolto il tuo approccio, o ci vedi anche nuovi talenti e spunti creativi entusiasmanti da cui trarre ispirazione?

Senza dubbio, negli ultimi dieci anni c’è stata una trasformazione radicale: nei tempi, nei modi, nell’estetica e nei budget. Se prima le aziende investivano in pochi spot annuali realizzati con tutti i crismi, oggi — complice l’ecosistema social — servono contenuti più frequenti e più rapidi, che per forza di cose non possono avere la stessa caratura degli “spottoni” di quando Instagram era ancora un sito per appassionati di fotografia. Questo ha generato un proliferare di piccole case di produzione e videomaker specializzati nelle “sveltine”, mandando in crisi il vecchio sistema dominato da poche grandi società con la erre moscia. Il risultato è un assetto un po’ caotico, a volte delirante, dove a un regista come me – che ho visto più storyboards che stories – può capitare di concorrere sia per spot TV di fascia alta che per promo usa e getta da feed. Personalmente — e non è una posa da creativo zen — trovo questa schizofrenia stimolante. Mi costringe a restare sveglio, a non fossilizzarmi. Oggi i confini tra prodotto alto e medio-basso sono più sfumati, e visto che la tecnologia ha livellato gli strumenti, la vera differenza la fanno le idee. E questo, per me, è un bel terreno di gioco.

> Non ti nascondo che lo spot della Juice è uno dei miei preferiti: quel personaggio è così curioso, sensibile espressivo… Ha qualcosa di davvero speciale. Parlando proprio della magia che si vede sullo schermo, e mi riferisco ai VFX (effetti visivi), qual è stato quello più ‘pazzo’ o tecnicamente sfidante da realizzare per quel progetto?

Grazie! Lo spot Juice appartiene a una singolare campagna pubblicitaria per l’omonimo reseller Apple. È un progetto nato dalla sinergia con il loro dipartimento comunicazione, in particolare con Antonio De Santis, con cui condivido una spiccata nerditudine. Credo che mi abbiano scelto perché cercavano idee bizzarre supportate da un apparato visivo che scardinasse la proverbiale diffidenza di Apple, ma con un assetto produttivo agile. Quando il concept prescelto (di Francesca Della Valle) ci ha trasportati nei territori della sci-fi, io e i miei collaboratori ci siamo subito interrogati su come affrontare i VFX. Senza dubbio la parte più difficile è stata dare vita al protagonista alieno, interpretato dal mimo Niba: una missione sulla quale abbiamo concentrato i maggiori sforzi produttivi. Ed essendo la campagna ispirata alla fantascienza vintage, ho optato per una tecnica mista che strizzasse l’occhio al cinema e alle tecniche del passato. In pratica, la creatura aliena – disegnata da Max Macellari – è frutto di una spericolata combo di effetti di make up e digitali. I primi rappresentano una sfida sul set, perché richiedono tempi lunghi di applicazione e inibiscono la mobilità dell’interprete. I secondi – realizzati in larga parte da Tommaso Malaisi – complicano di molto la post, in quanto non solo debbono aderire alla recitazione e ai movimenti dell’attore, ma anche amalgamarsi perfettamente con gli effetti “practical” (la maschera di gomma, per capirci). Finora abbiamo realizzato due spot, e i più attenti noteranno che nel secondo, i VFX hanno preso il sopravvento sul trucco prostetico. Spesso in questo lavoro, i tempi dettano i modi.

Spot Juice 1

Spot Juice 2Frame dello spost Juice 1

> Passiamo al tema attuale: l’AI. Se pensiamo al futuro, l’intelligenza artificiale potrebbe riscrivere le regole della narrazione visiva. Secondo te, qual è il suo potenziale più grande (e magari il suo limite più grande) nel creare spot che ci emozionano e ci sorprendono?

Uno studio recente ha dimostrato che, quando ci affidiamo all’intelligenza artificiale per compiti creativi, alcune aree del cervello legate alla pianificazione e all’apprendimento tendono a spegnersi. È un dato inquietante: rischiamo di delegare non solo il lavoro, ma anche il pensiero. Il problema non è l’AI in sé — che non è senziente, né creativa — ma il modo in cui la stiamo mitizzando. È uno strumento, sviluppato da pochi attori industriali, e come ogni tecnologia potente, il suo impatto dipende dalle regole che ci diamo. Se la trattiamo come un oracolo, finiremo per produrre contenuti che non inventano nulla, ma riciclano all’infinito ciò che è già stato detto, già visto, già venduto. È vero: nel mondo commerciale e mainstream, da tempo si ha la sensazione che tutto sia già stato scritto e realizzato. La cultura pop tende da anni a rimescolare formule collaudate. Ma l’AI non fa che amplificare questa tendenza, automatizzandola su scala industriale. Il rischio non è solo quello di ripetere il già visto, ma di renderlo sistemico, invisibile, e ancora più pervasivo. Nel mondo audiovisivo, il maggior potenziale dell’AI è la rapidità con cui rimpiazza lavorazioni complesse e costose. Da cui deriva il pericolo più grande: la disoccupazione di talentuosi professionisti e l’appiattimento del nostro immaginario collettivo. L’AI può combinare, interpolare, simulare — ma non può intuire, né rischiare. E senza rischio, non c’è visione.

> Torniamo allora al reale! Sul set, si sa, ne succedono di tutti i colori. Qual è la cosa più strampalata, inaspettata o memorabile che ti è capitata mentre eri impegnato a dar vita a uno spot?

Ti racconto l’ultima. Eravamo in montagna, pronti a girare un complicatissimo camera car con una crew di trenta persone. Tutto era al suo posto: attrezzatura, timing, tensione da ultimo ciak. Poi, a pochi metri dalla location, notiamo uno sbarramento e un gruppo di persone — età media intorno ai settanta — visibilmente eccitate. Scendiamo per capire cosa stia succedendo e ci viene comunicato, con grande serietà, che il percorso sarebbe stato bloccato per alcune ore a causa di una gara di ruzzola. Ora, per chi non lo sapesse, la ruzzola è uno sport tradizionale in cui si lancia una forma di formaggio (o un disco di legno, ma nel nostro caso era proprio formaggio) lungo un percorso sterrato, cercando di farla rotolare il più lontano possibile. Un misto di curling rurale e Mario Kart, senza il controllo. E così, mentre cercavamo di chiudere la giornata, ci siamo ritrovati a fare slalom tra forme di pecorino lanciate con una precisione incredibile. Il nostro piano di produzione è stato travolto — letteralmente — da una tradizione locale. E in quel momento, mentre schivavo un tomino volante, ho avuto la conferma che il mio lavoro è davvero imprevedibile.

> So che hai da poco girato il cortometraggio “Sakura” per Osaka. Il richiamo del grande schermo, o comunque di narrazioni più lunghe, è forte? La strada del cinema ti intriga, ti chiama?

Da diversi anni sto accarezzando l’idea di tornare alle origini, e ai motivi che mi hanno spinto a scegliere questo mestiere. Sto parlando del desiderio di raccontare storie avvincenti rivolte al grande pubblico, svincolate dall’urgenza di promuovere questo o quel prodotto. La pubblicità mi diverte e mi gratifica, non ho intenzione di mollarla, ma sento più forte che mai l’esigenza di affrontare progetti narrativi più articolati. Quindi “Sakura – Land of Symphony” non poteva capitare in un momento più favorevole, e devo ringraziare quattro persone per avermi coinvolto in questa avventura: il produttore esecutivo Roberto Venuso, il direttore creativo Marco Rossi, il direttore di Poliarte Michele Capuani e Iginio Straffi, presidente del Gruppo Rainbow. “Sakura” – presentato con successo ad Expo Osaka 2025 – è un piccolo film scritto da Sergio Ramazzotti, e interpretato da due professionisti eccezionali: Taiyo Yamanouchi e Dharma Mangia Woods. Una bellissima esperienza che mi ha ricordato quanto sia stimolante lavorare con gli attori — costruire insieme i personaggi, farli vibrare nella storia, e vederli prendere vita davanti alla camera.

> Dunque, a proposito di cinema, hai un progetto pronto nel cassetto (film o serie tv)?

Ci sono diversi progetti che bollono in pentola: alcuni ancora in fase embrionale, altri già più maturi. Se le cose gireranno nel verso giusto – e ti assicuro che sto facendo la mia parte – credo proprio che ne vedremo delle belle.

> Grazie di cuore Paolo, ci lasci con molta curiosità!

 

 

Questo è… ”Essere di Mestiere”, la rubrica di Aries Comunica pensata per immergersi nell’essenza stessa e umana della professione. In questo spazio, esploro il mondo delle arti comunicative, attraverso interviste ai professionisti che gravitano nell’universo creativo e della comunicazione.