Emanuele Cicconi: il suono del cinema che cattura emozioni invisibili

Nel cinema, il suono è invisibile, ma indispensabile. È ciò che dà corpo all’immagine, rende vera un’emozione, accompagna lo spettatore dentro la storia. Emanuele Cicconi è una di quelle figure chiave dietro le quinte che tengono in piedi la magia:  tecnico del suono in presa diretta, marchigiano di Santa Vittoria in Matenano, con alle spalle collaborazioni importanti come Hammamet, Il signore delle formiche e Campo di battaglia.

Dietro la sua voce calma e riflessiva si percepisce l’attenzione di chi vive “in ascolto”, dentro e fuori dal set. Tre volte candidato ai David di Donatello, Emanuele racconta un mestiere fatto di tecnica, sensibilità e capacità di adattarsi agli imprevisti — tra gabbiani da scacciare con puntatori laser, cuori che battono sotto i microfoni e un amore: Spirit, il suo cavallo che lo riporta ogni giorno all’essenza della vita.

Iniziamo la nostra chiacchierata!
> Emanuele, ci conosciamo da bambini, ti ricordo riservato, tranquillo, con parentesi grunge e reggae che però non scalfivano la tua delicatezza. Credi che quella timidezza e, quindi, la capacità di stare in osservazione abbiano preparato il terreno al tuo lavoro di oggi?

Di sicuro mi ha reso molto affine al lavoro che faccio. Sapersi mettere in ascolto per un fonico è come saper correre per un podista…

> Se dovessi spiegare il tuo mestiere a un bambino, come lo racconteresti? E come invece lo spiegheresti a un adulto, più razionale e meno incline alla fantasia?

A un bambino direi che faccio il raccoglitore di suoni: il mio lavoro in fondo consiste nel cercare, selezionare e raccogliere i suoni giusti per raccontare una storia. Parlandone a un adulto invece mi soffermerei sugli aspetti tecnici, perché è una professione che non ne può prescindere. Senza un’adeguata padronanza delle strumentazioni con cui lavoriamo, della psicoacustica, della fisica del suono e di come questo viene processato, non ci si può dedicare agli aspetti creativi.

> Hai lavorato in film importanti come Campo di battaglia e Hammamet. Puoi raccontarci un momento particolare dal set, uno di quelli che ti hanno segnato professionalmente o umanamente?

Beh, non sono bravo a scegliere momenti significativi tra i ricordi… Però c’è una cosa che a volte accade e che mi colpisce sempre: sentire il cuore dell’attore emozionarsi, vivere la scena. I microfoni nascosti, spesso, sono posizionati in prossimità del torace, perché lì hanno una migliore resa sulle frequenze più basse e danno corpo alla voce. In alcuni momenti, di colpo, quando in scena avviene qualcosa di vero, inizi a sentire il cuore dell’attore pompare sempre più forte: è la sua emozione, è qualcosa che non può controllare, qualcosa che sta vivendo.. e a cui tu fonico hai il privilegio di assistere da un punto di ascolto solo tuo, intimo. Questo succede sia all’attore alle prime armi che all’attore navigato, non è legato all’esperienza accumulata ma al vivere quel momento, è una circostanza che mette a nudo l’uomo che sta dietro al personaggio che sta costruendo.

> La presa diretta vive di imprevisti: vento, rumori, voci che si perdono. Non è solo tecnica, ma anche creatività nell’adattarsi. Qual è stato l’ostacolo più assurdo che hai dovuto affrontare?

Questo è l’argomento che più mi stimola, nella vita oltre che sul lavoro: gli imprevisti, l’essere creativi nell’adattarsi e nel trovare soluzioni. Non so se questo è l’ostacolo più assurdo ma di sicuro la soluzione trovata è stata molto divertente. Una notte d’estate giravamo una scena de “Il signore delle formiche” in una terrazza sui tetti di Roma. Eravamo circondati da gabbiani che, incuriositi dalle luci e dal movimento, si fermavano sui tetti a fianco a osservare e… commentare! Facevano un sacco di rumore e ci sporcavano la presa diretta, non sapevamo come fare perché erano davvero tanti e tutt’intorno. A un certo punto Chicco, caro amico macchinista, scopre che col puntatore laser che per gioco aveva in mano si infastidivano e se ne andavano. Da quel momento, prima di ogni ciak, iniziava la bonifica: prendevano tutti i puntatori laser disponibili e mandavamo via i gabbiani prima di girare la scena!

> Nella tua carriera hai lavorato sia in grandi produzioni sia in progetti più piccoli e, immagino, veloci come le fiction. Cosa cambia davvero tra un grande set e un piccolo set?

La principale differenza sta nel budget e di conseguenza nel tempo che hai per fare le cose. In una grande produzione giri una o due pagine di copione al giorno, quindi hai il tempo per dedicarti alle sfumature, al sapore di una scena che vuoi restituire. Questo si traduce nell’avere il tempo per mettere qualche microfono in più per catturare qualche suono particolare, avere la possibilità di cambiare impostazione a una scena se vedi che qualcosa non funziona al meglio perché hai il tempo di provare. Hai tutte le condizioni giuste per fare un bel lavoro. Nelle piccole produzioni invece il tempo è sempre poco, devi correre perché giri cinque o sei pagine al giorno e non puoi provare o apportare cambiamenti in corsa. Quindi in quei casi è tutto affidato alla preparazione che fai prima di iniziare le riprese e alla tua creatività nel risolvere i problemi quando questi si presentano. Le piccolissime produzioni però a volte sanno regalarti esperienze meravigliose, dove tutta la troupe è al servizio del film, dove anche in poche persone si è tutti al servizio degli altri per non far sentire nessuno in difficoltà, dove si rema tutti nella stessa direzione e si sopperisce alla mancanza di risorse economiche con le risorse umane.

> Il tuo lavoro con Gianni Amelio ti ha valso tre candidature ai David di Donatello. Quanto conta, per un tecnico del suono in presa diretta, stabilire un legame di fiducia con il regista?

Non è fondamentale, ma quando si crea un legame con un regista ti permette di spingerti molto oltre con tutto quello che può essere il tuo apporto tecnico e creativo al progetto. In primo luogo perché sai come quel regista vuole raccontare il suo film, sai dove pone la sua attenzione, quali sono gli elementi che userà per il racconto. E diventa facile per te valorizzare quegli elementi o proporne altri che magari non erano stati notati. Poi perché si crea un feeling, si entra in confidenza con una metodologia di lavoro e capisci cosa aiuta quel regista e cosa lo mette in difficoltà, impari a capire dove devi chiedere un confronto subito e dove invece puoi andare avanti e prendere decisioni in autonomia, hai subito chiaro quali sono i tuoi spazi di intervento.

> In un set il suono non vive da solo. Qual è per te la squadra di lavoro ideale, quella che ti permette di dare il massimo?

Si, il lavoro del set è in prima istanza un lavoro di squadra. Non esiste un reparto che può lavorare da solo senza influenzare o essere influenzato dal lavoro degli altri. Le squadre degli altri reparti cambiano sempre da film a film, quindi sei abituato a lavorare spesso con persone diverse. Quando tutti in un film sono allineati con l’idea che il regista ha di quel progetto, quando tutti condividono la stessa energia, quando non trovi un reparto che pensa soltanto a fare bene il suo, allora quella è la squadra di lavoro ideale.

> Emanuele qual è il suono che sogni un giorno di catturare?

Per me non esiste un suono dei sogni. Faccio un lavoro in cui il suono è al servizio dell’immagine e viceversa, e dove entrambi sono al servizio della storia. Ogni film, ma anche ogni scena, suona a modo suo. Il suono che sogno sempre di catturare è il suono giusto per quella scena in particolare.

> So che il tuo amore più grande al momento si chiama Spirit (il tuo cavallo). Dai set romani torni alla natura da lui, credi che questo equilibrio, che unisce la tecnica all’armonia del mondo naturale, ti aiuti a mantenere la serenità che ricordo come tua caratteristica?

Sicuramente avere una frequentazione quotidiana con gli animali, la campagna e la natura mi aiuta a mettere al proprio posto il lavoro e tutti gli aspetti collaterali della vita, mi aiuta a mantenere il focus su quello che per me è davvero importante, e questo genera serenità. Diciamo che per quanto possa considerare bella e stimolante la mia professione, già dalla mattina presto quando passo a governare Spirit prima di andare a lavoro, non vedo l’ora che arrivi sera per tornare da lui. Se qualcosa non va a lavoro o si presentano altri problemi nella quotidianità, Spirit in un secondo mi fa ridimensionare tutto. Anche quando lavoro e quindi non sto a Santa Vittoria, ho trovato una sistemazione in campagna, così da poter tenere Spirit vicino, perché ho bisogno di questo rapporto con lui e con la natura, dà un senso ai sacrifici che uno fa quotidianamente.

Spirit Cavallo

> Immagina di poter creare un set cinematografico proprio nel tuo paese natale, Santa Vittoria in Matenano: quale storia ti piacerebbe ambientarci, e quale regista (italiano o internazionale) chiameresti a dirigerla?

Questo si che sarebbe un sogno, poter lavorare stando a casa! A Santa Vittoria in Matenano ci si può ambientare tutto, dal thriller alla commedia per bambini… Non ho una storia in particolare da ambientarci, però mi piacerebbe si riuscissero a trasmettere le peculiarità della vita di Paese. E di sicuro lo farei dirigere e Matteo Oleotto o a Damiano Giacomelli, due amici e registi che conoscono davvero la Provincia, il Paese e li sanno raccontare coi tempi dilatati e gli spazi per niente affollati che caratterizzano queste realtà.

> Grazie di cuore Emanuele, ti cercheremo nei prossimi titoli di testa!

 

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Questo è… ”Essere di Mestiere”, la rubrica di Aries Comunica pensata per immergersi nell’essenza stessa e umana della professione. In questo spazio, esploro il mondo delle arti comunicative, attraverso interviste ai professionisti che gravitano nell’universo creativo e della comunicazione.